Arte.0 – quando l'Amore trasforma il dolore
L’arte è sempre stata il mio più grande amore, dacché sono nata ed è stato anche il mio più grande dolore.
Cause generazionali fatte di preconcetti e vecchi modi di pensare mi hanno impedito di frequentare le scuole che avrei scelto e di cui avevo ben chiaro il percorso.
Il mio sogno, fin da bambina, era quello di diventare una restauratrice di classici. Il mio sogno era ben chiaro, lucido, forte ma non abbastanza. Non abbastanza forte da abbattere le mura patriarcali di chi, per il mio bene, pensava che un percorso artistico mi avrebbe deviata e mi avrebbe impedito di vivere dignitosamente, con quella sicurezza economica su cui avrei dovuto fondare il mio futuro.
Mentre mio padre, amandomi, esercitava la sua autorità abbattendo ogni mio possibile tentativo di diventare chi sentivo di essere, mia madre taceva… d’altronde anche i suoi sogni si erano infranti contro gli scogli dello stesso maschile.
Così, mi ritrovai tra i banchi di una scuola che detestavo, in cui mi sentivo totalmente estranea, compressa e prigioniera. Appena potevo tornavo a disegnare chiudendomi nella mia stanza ma già sentivo il bruciore di quella rabbia repressa che mi tormentava dentro. Già i ricordi di quando ero ancora più piccola e frequentavo le scuole elementari erano diventati memorie che evocavano sofferenza. Una maestra che per 5 anni non ha mai apprezzato un mio disegno, che per 5 anni mi ha detto “non l’hai fatto tu, qui c’è lo zampino dei tuoi fratelli più grandi” e anche quando disegnavo in classe, girava la testa pur di non darmi quel riconoscimento meritato. Il suo razzismo era spietato e io ero figlia di meridionali trapiantati al nord. Agli esami di quinta, l’ultimo giorno di scuola, alla consegna della prova artistica tutti noi bambini stavamo attorno alla cattedra e lei commentava su ogni foglio consegnato. Quando arrivò al mio non disse nulla, fece per passare a quello dopo ma la mia amica Ada la fermò e disse “Maestra, guarda, il disegno di Anna è bellissimo!” “Tu pensa per te”. Le guance paffute di Ada si infuocarono ma fece silenzio, come me.
Crescevo e la mia rabbia diventava ribellione verso ogni forma di costrizione, una ribellione puramente esteriore, di facciata, mentre inconsciamente costruivo la prigione interiore dove soffocavo i miei sogni.
L’idea di poter sfiorare un Leonardo, un Caravaggio, un Botticelli per apportare un aiuto al suggellamento della loro eternità venne sommersa dal dolore di crescere tra chi sentivo estraneo anziché familiare.
Lottai al punto di fuggire da casa solo per conquistare una nuova scuola, almeno più vicina alla mia indole creativa.
Il mio rientro tra le mura domestiche segnò la fine del rapporto con mio padre. Sembrava che da piccola fossi il suo fiore all’occhiello, il suo gioiello più grande, invece, ora precipitavo di fronte al suo “va bene, cambia pure scuola ma non farmi sapere nemmeno cosa farai, è inutile, io non ti capirò mai”.
Da quel preciso momento, tutto divenne uno sforzo, qualsiasi obiettivo da raggiungere. Mi sono impegnata oltre ogni misura per divenire qualcosa, anche se non corrispondeva alla mia pura autenticità e, per un patto di totale onestà che ho sempre sentito nei confronti della vita, ho cercato di dare il meglio di me, il massimo che potessi offrire in tutto ciò che facevo, interiorizzavo e trasformavo per arrivare a vivere di me, di quello che imparavo a fare e con cui volevo aiutare l’altro. Essere utile per qualcuno era un bisogno, una necessità. In realtà, cercavo un modo di aiutare me stessa.
Ho studiato tanto, tantissimo. Ero iscritta all’università ma mi mettevo a studiare forsennatamente su libri che col percorso accademico non c’entravano niente. L’attrazione che esercitavano su di me quei testi era troppo forte, erano letture che appagavano la mancanza di radici, lenivano quel mio sentirmi estranea al nucleo familiare. Mio padre, pur essendo vivo, non era più al mio fianco e nessuno mi impediva di andare verso ciò che mi richiamava.
È stato tutto molto impegnativo, sempre, e non in senso negativo, ciò che imparavo mi gratificava solo che la vita aveva perso la sua leggerezza. Si era fatta densa, concentrata in un condensato di eventi ed esperienze a volte anche molto dolorose.
In tutto quel “tanto”, ho conosciuto persone straordinarie a cui mi sono incollata, fortemente assorbita dal loro sapere. Ho seguito personaggi eccezionali che mi hanno trasmesso qualcosa di incommensurabile dandomi le basi e le direttive di quello che è diventato il mio mestiere ufficiale fino ad oggi. Ho seguito degli insegnamenti esoterici che mi hanno spalancato la mente e mi hanno resa consapevole dell’infinito vibrante che è in noi, in ogni essere vivente, anche quello che sembra privo di vita.
Andavo avanti a velocità supersonica facendo esperienze che ora potrei contare come cento vite in una. E l’arte? No, lei era soffocata in me nonostante gli anni vissuti a stretto contatto con un maestro pittore e scultore, frequentando assiduamente la sua bottega dove facevo, sì, ma non tiravo fuori chi ero. Imparavo, le tecniche, la copia dal vivo, l’affresco. Come sempre ero brava, certo, capace e diligente, una Hermione Granger al primo posto con la mano alzata ma era sempre quella facciata che non lasciava emergere dal profondo la mia verità.
Attorno ai 40 anni quella forza prigioniera cominciò a muoversi dentro. La riconoscevo e mi faceva paura perché non sapevo come affrontarla. La sua intensità era tale che la dirottavo su decisioni importanti e sconvolgenti che ho messo in atto credendo così di darmi la libertà tanto idealizzata ma a lei, a quella energia, a quell’impeto interiore, sembrava non bastare mai nessuna mia azione.
Mi faceva paura perché temevo che contattandola mi avrebbe portato alla follia, si sa… gli artisti sono tutti pazzi, sono i reietti della società o sfigati destinati a essere soli, poveri e incompresi.
Quei pregiudizi, negli anni avevano preso corpo in me agglomerandosi in un sabotatore interno che aveva la sua fucina nel mio inconscio da dove proiettava paure e mancanza di possibilità ed io avevo due figli da crescere a cui volevo dare solo il meglio del meglio di me.
Ora, sono ben consapevole che il mio giudice interiore non era affatto nefasto, non era cattivo, anzi, era come un’entità dotata di un grande potere che cercava di spingermi a osare per produrre, per dare vita a un qualcosa di concreto. Mi richiedeva un risultato che fosse l’effetto, il frutto condensato della mia sensibilità. A quella forza a cui non davo ciò che voleva, a cui resistevo perché inconsapevolmente restavo incastrata nell’autopunizione di non fare arte, diedi però una tastiera e dei fogli virtuali. Così, cominciai a scrivere ispirandomi a una prima storia. Una storia vera, quella di un’amica che volevo difendere, di cui volevo rivendicare il femminile oltraggiato. Da allora, non ho più smesso e ho scoperto un amore immenso per le parole a cui potevo dare forma per raccontare ed emozionare. Per dare voce a chi non l’aveva, per testimoniare, per denunciare, per urlare i non detti miei e di altri. Per portare alla conoscenza di tutti ciò che è nascosto, soprattutto per aiutare le bambine e i bambini che sono le bambine e i bambini che tutti siamo stati.
Le parole avevano preso il posto dei colori a cui avevo rinunciato, verità che ogni tanto mi tornava in mente. Ogni volta, però, lasciavo il sogno dov’era per dare precedenza ad altro e ad altri. Sentivo che nella mia vita c’erano diverse cose da fare.
Poi, un giorno del 2020, qualcuno è riuscito a strapparmi una promessa. Per mantenerla, avrei dovuto “tornare a me stessa”.
Stavo vivendo il momento più drammatico che potessi sostenere.
L’ho vissuto fino in fondo in ogni suo istante e non so nemmeno come sono rimasta viva. Dopodiché mi sono spogliata di tutto. Ho lasciato tutto ciò che credevo mi appartenesse.
Quel vuoto fuori mi dava le vertigini e pian piano, come assorbita da un vortice mi sono ritrovata in una dimensione nuova. Ora, tutto il mondo fatto dagli altri mi girava attorno alieno, quasi indifferente mentre un movimento centripeto mi riportava nel mio centro fatto di silenzio e vuoto mentale. E, in quella infinita solitudine, ho incontrato di nuovo quella forza, la mia arte.
L’ho riconosciuta subito ma avevo tante credenze limitanti da sciogliere prima di accettarla.
Mi rendo conto che il mio ritorno ai colori non è affatto il mantenimento forzato di quell’impegno preso con la persona che continuo ad amare nonostante distanze dimensionali ma è stata invece un’esplosione improvvisa e incontenibile, uno starnuto che non ho potuto più trattenere, qualcosa di irresistibile e spontaneo.
Quella forza è uscita da me fluidamente, senza fatica. Naturale, gentile ma prorompente.
Credevo di aver generato negli anni un blocco nei suoi confronti, invece non c’era niente, nessun ostacolo, nessuna palizzata. Era un muro fatto di convinzioni semi squagliate, ormai risolte, le stesse che ho lasciato andare insieme a tutto il resto fino a ritrovare una me senza rimpianti, senza recriminazioni, solo con un gigantesco serbatoio pieno di amore.
È attraverso l’amore che mi sono liberata dai sensi di colpa nei confronti di mio padre per non essere mai stata alle sue regole, per averlo deluso ed esasperato (altra cosa che ho creduto per molto). Ho dovuto perdonare me, più che lui, e ho ritrovato così tutto il suo amore per la bambina e la figlia che sono stata.
È con l’amore che ho accolto mia madre nel cuore, comprendendola nel profondo, tanto a fondo da arrivare alla tenerezza, alla comprensione più autentica, alla gratitudine più sublime.
Grazie all’amore ho trovato l’universo dei mei amati genitori nel mio, trasformato nel permesso che ho dato a me stessa… quello di liberarmi dalle catene in cui mi ero avvolta.
Con amore ho abbracciato la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia giovinezza fino a comprendermi per accettarmi e assolvermi.
Dopo un tempo a cui non ho dato, né do, un valore lineare, il passato è diventato il mio presente in cui riconosco che ogni esperienza finora vissuta ha avuto i suoi giusti, indispensabili e sacrosanti perché.
Ho ripreso il bandolo di quella matassa che mi sono portata sempre dentro e che non ho mai abbandonato.
Mi affaccio su me stessa senza più barriere con l’unico fine di essere semplicemente quella sono, collegata a ciò che per me è fonte di vita, la mia Essenza… il mio Spirito.
Ed è Lui che si esprime mentre vivo. È Lui il risultato di chi sono.
Davanti a un foglio bianco, davanti a una tela nuova, davanti a una persona che arriva nel mio studio per una sessione di coaching, sono l’espressione del mio Sé a cui mi allineo per essere un tramite pulito e libero nella volontà di essere efficace, il più possibile.
Anna Capurso
WWW.ANNACAPURSO.COM
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